Marco Polo, nel suo primo salto nel tempo, aveva accompagnato in silenzio Hermann Buhl sino al momento in cui si era salvato sul Nanga Parbat e, subito dopo, aveva incontrato i fratelli Messner sempre sul Nanga Parbat alla fine della loro drammatica discesa, quando Gunther venne travolto da una valanga e si salvò solo Reinhold, ma subendo terribili congelamenti ed amputazioni. Quando alcuni contadini raccolsero l’alpinista ormai allo stremo delle sue forze, Marco si trovò nuovamente avvolto dalla luce fortissima del primo salto, che lo condusse immediatamente sino al….

1996 – Anatolij Bukreev sull’Everest – 8848 m

3) “Everest 1996: cronaca di un salvataggio impossibile” di Anatolij Bukreev e Gary Weston De Walt– Centro documentazione Alpina & VIVALDA Editore – Milano – 1998 – segn. Biblioteca I630

Maggio del 1996: tre spedizioni commerciali che portavano i propri clienti sulla montagna più alta della terra tentavano la scalata della Cresta Sud-Est dell’Everest. Proprio per questo particolare “turismo” di altissima quota, ogni gruppo comprendeva alpinisti di grande esperienza, ma anche scalatori meno preparati che avevano pagato decine di migliaia di dollari per arrivare in vetta. E proprio nelle vicinanze della cima, la sera del 10 maggio, ventitré tra uomini e donne si ritrovarono in una feroce tempesta. Disorientati, senza più ossigeno, lottarono per la salvezza, lasciando nella neve e nel ghiaccio cinque vittime. Anatolij Bukreev, grande alpinista, guida esperta delle altissime quote e membro della spedizione di Scott Fischer, riuscì a portare al riparo un gruppo di clienti ormai stremati. Subito dopo, ricominciò a cercare altri sopravvissuti, da solo e in condizioni estreme.

Marco riconobbe immediatamente il profilo dell’Everest: ci era stato anche lui e sapeva bene che a quell’altezza, quando la tempesta si scatena, diventa quasi impossibile riuscire a combattere la forza immane degli elementi e della natura. Ancora una volta, pianse amaramente vedendo i corpi ormai inanimati dei poveri sventurati morti sul ghiaccio. Ma subito dopo si accorse di trovarsi proprio alle spalle robuste di Anatolij Bukreev. Lui aveva sconsigliato di salire sull’Everest così tardi nel pomeriggio: sapeva bene che lassù, se arrivi molto tardi, è troppo rischioso. Ma alcuni “clienti” avevano insistito tanto per salire lo stesso: per loro, non ci sarebbero state molte altre occasioni di completare quella scalata. Il loro sogno non si sarebbe forse mai più potuto realizzare. E così, si erano spinti fino alla vetta, ma al ritorno si era scatenata la terribile tempesta.

Non più tardi di dieci o quindici minuti da quando era partito, le nuvole scesero fino al Colle Sud. Quasi simultaneamente Bukreev venne investito da raffiche di neve sospinte lateralmente da un vento che correva a quaranta o cinquanta miglia all’ora e il colore del cielo da grigio pastello divenne bianco come un lenzuolo. “Mi accorsi che la mia riserva di energia avrebbe potuto non essere sufficiente per affrontare la situazione e iniziai a respirare ossigeno da una bombola […]. Stavo salendo su un pendio ripido di ghiaccio e capivo che le corde fisse dovevano trovarsi da quelle parti, ma la scarsa visibilità me le nascondeva”.

Marco si accorse Anatolij era ormai allo stremo delle forze: praticamente arrampicava alla cieca e per riuscire ad approfittare di quel poco di visibilità che era rimasta, finì per togliersi la maschera e continuare la sua ricerca senza ossigeno. “Ma non puoi continuare così, Anatolij, devi scendere e riposarti” gridò Marco con tutta la voce che aveva. E Anatolij parve sentirlo: stremato dalla salita e dallo sforzo immane che aveva appena compiuto, decise di tornare al campo 4, dove si sarebbe riposato un poco e poi avrebbe ripreso il suo tentativo di aiutare i clienti rimasti lassù.

A trenta metri dalla tenda non mi restava più un briciolo di forza. Tolsi lo zaino e mi sedetti sopra, con la testa tra le mani a cercare di pensare, a cercare di riposare. A cercare di capire che cosa fosse successo agli alpinisti su in alto. […] Ma non ho la forza di muovermi, perché sono così stanco, così esausto. Mentre ero lì seduto, qualcuno che non conoscevo uscì dal buio e dalla neve e mi si avvicinò, parlandomi come se fosse un amico, ma io non lo riconobbi. Pensai che fosse qualcuno della spedizione taiwanese o della spedizione di Rob Hall, ma non ero sicuro, e questa persona mi chiese: “Hai bisogno di aiuto?” e io dissi “No, sto bene” e lui mi disse che doveva tornare a fare segnali con la torcia e io gli dissi che ce l’avrei fatta a rientrare nella mia tenda. E dopo un po’, non so quanto, trovai la mia tenda, tolsi lo zaino e i ramponi, battei i piedi per scrollare la neve e il ghiaccio dagli scarponi e, svuotato, senza forze, entrai nella tenda, ma era vuota. Nessuno era arrivato. Nessuno”.

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Marco era riuscito a salvare Anatolij, dandogli la forza di riuscire a ritrovare la tenda nella quale potersi riprendere. Anatolij non poteva rassegnarsi a lasciare i suoi clienti e gli altri alpinisti in mezzo a quella terribile tempesta, da soli e senza speranza. Si fece dare delle bombole di ossigeno e del tè caldo e ripartì non appena riuscì a riprendersi. Tornò dopo una nuova immane fatica, riuscendo a salvare altre tre persone, mentre una delle clienti era già morta. Nonostante questa sua grande ed eroica impresa, dovette poi affrontare delle accuse terribili, che lo amareggiarono profondamente e gli fecero molto male.

Marco allora rivolse uno sguardo pieno di compassione e di grande rispetto verso quell’uomo eccezionale, che aveva compiuto un’impresa incredibile e di grandissima umanità. Allungò la mano, quasi a voler prendere la sua e stringerla ma, come negli altri momenti finali del suo infinito e struggente viaggio nel tempo, la luce fortissima che ormai conosceva bene lo avvolse e lo portò nel… [continua].

“Il libro è la cronaca puntuale e avvincente non solo della salita e della tragedia, ma del conflitto profondo, e sempre più attuale, tra due modi di intendere l’alpinismo, nello scontro di uomini e culture che parlano linguaggi diversi. Anatolij riflette amaramente:

Forse il prezzo per salire in cima all’Everest si deve calcolare in un modo diverso. Sembra che sempre più gente sia disposta a pagare in contanti, ma non tutti sono disposti a pagare di persona con lo sforzo fisico necessario per allenarsi gradualmente, corpo e mente, scalando cime più basse, muovendosi dalle difficoltà più semplici a quelle più complesse, e arrivare solo alla fine a scalare gli Ottomila. Una preparazione di questo tipo forse non è appagante, ma è necessaria.

Anatolij Bukreev racconta l’accaduto in prima persona, analizza gli errori compiuti da ognuno e ciò che è stato svolto correttamente. Disegna le logiche sottese ed il conflitto fra la responsabilità della guida nei confronti dei clienti e dei colleghi (guide e sherpa) e l’approccio commerciale della spedizione che, dati i costi di realizzo, non poteva permettersi un fallimento. Tensioni, incomprensioni, difficoltà linguistiche e di approccio relazionale fra persone di diversi profili, provenienze e capacità. La difficoltà e la responsabilità delle scelte effettuate e, come sempre, da qualcuno contestate. Leggendo questo libro si ha la sensazione di essere davvero parte della spedizione, di vivere non solo il tentativo di scalata alla cima, ma tutto il viaggio, la preparazione, l’acclimatamento, il lunghissimo tempo trascorso con l’incertezza di poter compiere il sogno della vetta, l’impazienza, i timori… E il momento della difficoltà: la battaglia interiore fra il cercare di aiutare il prossimo a restare in vita e il proprio istinto di sopravvivenza, la disperazione del credersi persi nella tormenta e la chiusura a riccio una volta in salvo. E non solo, una volta a casa accuse e irriconoscenza (di chi forse doveva placare i sensi di colpa, aveva l’orgoglio ferito o era semplicemente invidioso) e la conseguente delusione e solitudine.”

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Marzia Rossi [La Traccia n. 95, settembre 2015]

Anatolij Bukreev morirà in montagna (alla quale aveva legato indissolubilmente tutta la sua vita terrena), travolto da una valanga sull’Annapurna il giorno di Natale del 1997. Era nato a Korkino, negli Urali, trentanove anni prima. Laureato in fisica e campione della squadra di alpinismo sportivo dell’Unione Sovietica aveva preso la residenza ad Alma Ata, nel Kazakistan. Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica viveva prevalentemente negli Stati Uniti e lavorava come guida in Himalaya. Aveva al suo attivo oltre un centinaio di scalate in Caucaso, Pamir e Tien Shan e venti salite su cime di ottomila metri, quasi tutte compiute senza ossigeno, molte da solo e in tempi record. Sull’Everest era salito quattro volte. Per l’azione di salvataggio compiuta sull’Everest nel 1996, gli è stato conferito dall’American Alpine Club il David Sowles Award.