5) “K2 Il nodo infinito – sogno e destino – di Kurt Diemberger – Dall’Oglio Editore – Milano – 1991 – segn. Biblioteca Q813

Il nome K2 (montagna chiamata anche ChogoRi) sta per Karakoram 2, cioè “seconda cima del Karakorum”, e fu assegnato alla montagna dal colonnello Thomas George Montgomerie, membro del gruppo guidato dal geografo inglese Henry Haversham Godwin-Austen, che effettuò i primi rilevamenti nel 1856. ChogoRi significa Grande montagna, ma per la sua difficoltà alpinistica e per l’alta mortalità (il rapporto fra gli alpinisti che hanno raggiunto la vetta e le vittime totali è di 1 a 4) è conosciuta anche come la Montagna Selvaggia. Fra tutti gli ottomila, ha il terzo più alto tasso di mortalità di scalata dopo l’Annapurna e il Nanga Parbat. Reinhold Messner sostiene che si tratta dell’ottomila più difficile da scalare e la sua opinione è condivisa anche da altre fonti; tutto ciò deriva dalla somma di diversi fattori quali l’estrema ripidezza di tutti i suoi versanti e la presenza costante di tratti di arrampicata e passaggi alpinistici molto impegnativi e pericolosi. La salita è resa ancora più difficile dall’assenza quasi totale di posti adatti a posizionare un campo. Inoltre, il K2 detiene un altro primato che testimonia ancora una volta la sua altissima difficoltà: infatti, è stato l’ultimo 8 000 ad essere scalato in inverno nel gennaio 2021. A solo titolo di paragone, 41 anni dopo che l’Everest e 5 anni dopo che il Nanga Parbat erano stati già scalati in quella stagione.

Marco vide bene che quella montagna immensa era il K2, la seconda cima della terra dopo l’Everest, e le due persone che vedeva erano Kurt Diemberger e Julie Tillis. Kurt è anche l’unico alpinista vivente ad aver effettuato la prima ascensione di due ottomila. E’ sempre stato anche un eccezionale cineasta e con le sue opere ha voluto mostrarci non solo le montagne, ma anche farci capire il modo di vivere, di essere e di pensare di chi si trova lassù. Con Julie Tillis aveva costituito il “the highest filmteam of the world” per filmare il mondo degli ottomila, ma soprattutto condivideva con lei il sogno di scalare questa incredibile montagna, la “montagna del sogno”. L’avevano già tentata, ma ogni volta erano stati respinti, quasi che il loro destino non fosse quello. Ma il nostro destino non si dimentica mai di noi e, prima o poi, si ripresenta al nostro cospetto e si compie. Il 1986 fu per Kurt e per Julie l’anno del sogno e, purtroppo, anche l’anno del destino.

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Marco sapeva che, per i due alpinisti, la passione per la montagna era come saltare da un’isola all’altra, senza sapere mai se il loro balzo sarebbe sempre riuscito. Però non avrebbero mai rinunciato al loro modo di essere e di concepire il salire sulle vette più alte, pur nella consapevolezza che la loro vita era come una danza sul filo di un rasoio. Ma Marco ricordava perfettamente che quel 1986 sul K2 era stato l’anno delle grandi tragedie, con 13 alpinisti morti nel tentativo di scalare la seconda montagna della terra.

Ma io, a volte, penso all’esistenza di una “roulette russa” in altissima quota, che non risparmia né i migliori né i più prudenti…”. Così pensava Kurt in quei momenti e Marco sentiva quei tristi presagi dell’alpinista austriaco. Allora, si disse, Kurt stavaforsepensando di rinunciare alla salita, viste le loro condizioni fisiche e quelle del tempo che stava rapidamente peggiorando. Inoltre, anche Julie aveva cominciato a dubitare della loro riuscita, soprattutto dopo che aveva assistito Goretta, la moglie di Renato Casarotto, che aveva perso la vita in un tentativo in solitaria sulla cresta sud-ovest, cadendo in un crepaccio. Marco tentò di suggerire a Julie le difficoltà che avrebbero potuto incontrare: “Non pensi che lassù, con tanta gente, la situazione diventi incontrollabile?” chiese allora Julie a Kurt, quasi avesse sentito le parole sussurrate da Marco. “Ma no” rispose Kurt “dopo tanti morti, chi giocherebbe d’azzardo? Mi sento ottimista, purtroppo. No: se sei autosufficiente non ti lasci coinvolgere e poi, se la situazione si fa confusa, si può sempre scendere”. Purtroppo Marco sapeva bene che quella riflessione si sarebbe rivelata drammaticamente errata. Infatti, gli eventi possono essere interpretati in mille modi, ma la conclusione buona o cattiva di un’impresa funge in genere per tutti da giudice superiore. Ma se è pur vero che al destino non si può sfuggire, nemmeno si può pensare che l’uomo vi si abbandoni senza lottare: e così fecero Kurt e Julie.

Infatti, decisero di salire ugualmente, nonostante i numerosi errori e le terribili disgrazie che si erano verificate in quei drammatici giorni. Marco, quindi, tentò quasi di spingerli in quella loro impresa, sperando che potessero giungere in cima quanto prima possibile. “Dovremmo aver superato gli 8500 metri. […] Diretta, sopra di noi, vicinissima, la pinna di un pescecane. Un sottile, leggerissimo velo avvolge tutto. Saliamo verso la cima. […] Guardo un attimo Julie che mi assicura. Anche i suoi occhi sono pieni di attesa e di eccitazione. Ancora un paio di appigli e raggiungo il bordo: davanti a me la morbida linea della cresta sommitale, preceduta da un dolce pendio, una specie di piccola conca. […] Ancora un crepaccio, poi raggiungiamo la morbida linea che porta alla vetta. Siamo felici. Restiamo abbracciati. Per una frazione di eternità, il K2 è nostro. La cima che abbiamo più ardentemente sognata”.

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Marco stavolta pianse sia per l’emozione per quel meraviglioso momento dei due alpinisti e sia perché, purtroppo, già scorgeva la terribile bufera che stava per scatenarsi sulla montagna. “La nebbia si fa più cupa, il vento scivola freddo intorno alla cima. È un avvertimento! Facciamo ancora qualche foto, in fretta, ma Julie già dice “E’ tempo di scendere”. Nei suoi occhi c’è inquietudine. Sono le sei passate. Dobbiamo andare”.

Purtroppo, durante la discesa, Kurt e Julie furono travolti da una caduta che li trascinò lungo il fianco della montagna, lasciandoli feriti e con la perdita di materiali e preziose attrezzature: “E adesso, cosa facciamo? Ormai è buio, quasi completamente. Non lontano intravvedo la cupola pianeggiante del ghiacciaio pensile sul quale siamo atterrati e, in essa, la sagoma inconfondibile di un crepaccio. […] Dovremo bivaccare. […] Forse potremo addirittura sostare nel crepaccio e riprendere la discesa fra qualche ora.”

Marco urlò con più voce possibile (anche se sapeva bene che non potevano sentirlo) che sotto il crepaccio c’era il vuoto e il fragile riparo avrebbe potuto cedere da un momento all’altro. Kurt sembrò quasi avvertire il pericolo: “Un senso di sospetto però comincia ad insinuarsi nella mia mente. È proprio il caso di andare avanti? Mi fermo un attimo. […] Poi, improvvisamente, premendo con la punta dello scarpone sento che, poco prima della parete, c’è del vuoto. Gran Dio, qui non possiamo restare! Sotto la rampa è cava.” Kurt cadde e riuscì miracolosamente a rimanere appeso con la piccozza e la punta di uno scarpone. Ma Julie riuscì incredibilmente a reggerlo e, mentre Kurt risaliva, avvertì quasi la presenza di Marco che gli sussurrava: Niente paura, tu non morirai quassù” dice ora con calma la scura silhouette sopra di me. La sua voce suona come un presagio”.

Marco Polo visse con loro quella lunga notte di bivacco ad oltre 8000 metri e il giorno seguente, dopo un’estenuante discesa nella neve, li vide arrivare alle tende del campo 4, dove ritrovarono alcuni dei loro compagni. Kurt pensò che finalmente ce l’avevano fatta, ma purtroppo non era così e Marco lo sapeva bene. Il maltempo, a quella quota, iniziò a sferzare il campo e nessuna azione di soccorso poteva essere iniziata per i sette alpinisti accampati sulla spalla del K2. Non certamente con quel tempo terribile. Erano da soli in quell’inferno: era il 5 di agosto del 1986. Julie sembrava essersi ripresa dopo la terribile discesa dalla vetta, ma iniziò ad avere dei problemi alla vista, frutto forse di danni cerebrali. Kurt cercò di tranquillizzarla, ma iniziò a preoccuparsi che lei non riuscisse più a scendere. Nel frattempo, la bufera di neve sferzava il campo con venti a 100 chilometri all’ora. Purtroppo, quel campo si trovava troppo in alto…

Marco sapeva bene che sarebbero stati cinque giorni di terribile agonia, durante i quali Julie peggiorò continuamente, ma Kurt non poteva saperlo perché erano in due tende diverse. La rivide l’ultima volta il 7 agosto attraverso il piccolo ingresso della tenda: “Kurt, mi sento un po’ strana” gli disse lei con una voce flebile. “Sii forte, io penso a te” gli rispose Kurt, cercando di darle un po’ di coraggio, ma Julie gli rispose solo con un semplice “Ciao” e si allontanò. La notte dell’8 agosto, Julie morì…

Marco, piangendo, la salutò leggendole con dolcezza le parole che lei aveva scritto nel suo libro “Clouds from both sides”: “Se potessi scegliere ove morire, vorrei essere in montagna. Quando al Broad Peak la valanga ci trascinò via, mi resi conto che non mi sarebbe dispiaciuto finire così. Più volte, ho vissuto momenti nei quali sarebbe stato facile e bello mettermi in silenzio e scivolare nel sonno eterno. Spero solo che il ciclo naturale per me non si chiuda troppo presto. Avrei ancora tante cose per cui vivere…”. Marco si recò allora da Kurt, che era ormai perso nel suo dolore e lo incoraggiò come poteva, cercando di ridargli la speranza che gli era necessaria per ridiscendere. E Kurt sembrò sentirlo: “Da quando lei è morta, sento dentro di me qualche cosa, una forza che mi distacca da tutto, ma che allo stesso tempo mi avvicina alla terra. Qualunque cosa essa sia, è una forza incredibile, l’allora e l’adesso, il sopra e il sotto. Inseparabilmente uniti, fusi. Quando non riuscirò più a distinguere il sopra e il sotto, l’allora e l’adesso, non sarò più in grado di scendere”.Sino al 10 agosto rimase al campo 4, con principi di congelamento alle mani e sepolto dalla neve che copriva interamente la tenda. Al campo morì un altro compagno e i superstiti iniziarono la discesa in condizioni drammatiche e nel pieno della bufera che imperversava con violenza inaudita. Altri due alpinisti morirono per sfinimento durante la discesa dal campo 4 e un’alpinista polacca morì per embolia tra il campo 3 e il campo 2.

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Marco accompagnò Kurt durante tutta la discesa, continuando a suggerirgli i passaggi più difficili: “Stai attento, Kurt, scuotiti. Non fare manovre false, fintanto che non sei agganciato. Sotto di te è tutto grigio, per duemila metri…”. Kurt aveva ormai le dita completamente congelate ed ogni manovra di corda gli costava uno sforzo immane. Egli pensò però che ormai la parete di ghiaccio era dietro di lui, ma Marco ancora gli suggerì: “Non del tutto Kurt, sei proprio nel passaggio delicato prima della traversata”. Ora lo aspettavano un paio di metri senza corda fissa: e, all’improvviso, scivolò! “Tieniti, Kurt, tieniti”. Ora c’è la scaletta metallica, il punto più difficile: una pausa per ogni scalino. “Intorno a me ed anche dentro di me, sento, avverto la presenza di un’energia invisibile, una forza, come una protezione…che mi ha già “preso” su nella tenda durante gli ultimi giorni”.

Marco accompagnò Kurt fino al campo 2 a 6700 metri, dove riuscì a rifocillarsi e a riposarsi, prima di riprendere la discesa di oltre 2700 metri fino al campo base, campo che raggiunse la notte seguente, ormai allo stremo delle forze. Ormai da solo, senza Julie. E proprio in quel momento, Marco lo salutò con un lieve cenno della mano ed un sorriso, mentre veniva ripreso dal turbinio di luce che lo trasportò nel … [continua].

Il libro di Kurt Diemberger è molto di più di questi brevi tratti qui da noi raccontati. L’alpinista ci mostra uno splendido spaccato della sua anima e di quella di Julie, sua compagna in tante salite, fino all’ultima e tragica avventura sul K2, la montagna del sogno e del destino. Ma ci fa riflettere anche sul nostro di destino che, pur non così estremo come il loro, certamente ci accompagna per tutta la nostra esistenza e ci mostra spesso quella strada che anche noi non sempre riusciamo a intravedere tra la nebbia.