Marco Polo, dopo aver incontrato Herman Buhl e i fratelli Messner sul Nanga Parbat e Anatolij Bukreev sull’Everest, stava ora nuovamente viaggiando nel tempo e nello spazio, senza sapere dove si sarebbe fermato il suo viaggio. Mentre viaggiava, si chiedeva quale fosse il senso dello strano destino di questi suoi viaggi: ma poi si rese conto che, nei momenti più bui della vita, quando ci sembra di non avere più scampo da un drammatico epilogo della nostra esistenza, c’è sempre qualcosa (o qualcuno…) che ci soccorre, dandoci la forza di superare anche gli ostacoli che ci sembrano ormai insormontabili. E si convinse che, forse, il Destino aveva affidato a lui questo compito, a lui che da sempre aveva desiderato di poter essere utile agli altri. Mentre così pensava, si trovò su un’altra immensa parete, dove vide…
1997 – Simone Moro sull’Annapurna – 8091 m
4) “Cometa sull’Annapurna” – 1997 – di Simone Moro – Corbaccio Editore – Milano – 2003 – segn. Biblioteca I89
Simone Moro è l’unico alpinista al mondo ad aver scalato in prima invernale quattro Ottomila: lo Shisha Pangma (2005), il Makalu (2009), il Gasherbrum II (2011) e il Nanga Parbat (2016) ed è salito sulla cima di otto dei quattordici Ottomila. Tuttavia, nonostante queste eccezionali imprese, nel 1997 stava già tentando la scalata invernale dell’Annapurna, tentativo effettuato insieme ad Anatolij Bukreev e al cineoperatore ed alpinista Dimitri Sobolev. Il tentativo, purtroppo, non riuscirà per le terribili condizioni del tempo e per una immane disgrazia: i tre furono investiti da una valanga di enormi proporzioni e i due compagni di Simone furono travolti ed uccisi dalla massa di neve. Simone riuscì a salvarsi in circostanze miracolose e, pur ferito gravemente, riuscì a giungere al campo base a costo di indicibili sofferenze.

La cima dell’Annapurna era stata raggiunta per la prima volta nel 1950 da una spedizione francese, ma i due alpinisti che compirono l’impresa (primo ottomila scalato) subirono gravissimi congelamenti ed amputazioni. Poi, nel 1987, fu scalata in inverno per la prima volta dal grandissimo alpinista polacco Jerzy Kukuczka (secondo uomo al mondo a scalare tutti gli Ottomila). L’Annapurna vanta però più vittime che alpinisti che hanno raggiunto la vetta e la sua parete sud è considerata uno dei versanti da scalare più difficile al mondo.
Marco Polo riconobbe subito i tre uomini e si ricordò che Moro e Bukreev avevano iniziato quel tentativo per sostenere le loro convinzioni che l’alpinismo non fosse morto sotto il peso delle spedizioni commerciali, che solo l’anno prima avevano scritto una delle pagine più drammatiche sull’Everest: Bukreev era là e, pur nella terribile tormenta che aveva investito gli alpinisti e i loro clienti, era riuscito da solo a salvare numerose persone, rischiando la propria vita. Ora, anche per lui quella salita era l’occasione per portare avanti i propri principi sull’alpinismo himalayano, considerato libero per scelta e non schiavo di vincoli commerciali.
Marco ora poteva vedere i tre uomini a quota 6300 metri: Simone saliva sotto la cresta, appeso ad una parete di 800 metri mentre Anatolij e Dimitri facevano sicurezza sotto di lui. Voleva gridare “Fermatevi, sopra di voi c’è un’enorme massa di ghiaccio che può cadere da un momento all’altro: Simone guarda in alto!”.

“Arrivai sotto una roccia, quello che sembrava essere l’ultimo ostacolo prima della cresta sommitale. La aggirai e … un torrente di adrenalina mi lasciò senza fiato e mi invase con velocità fulminea. Sopra di me, tremenda, una gigantesca cornice di neve e ghiaccio si estendeva come un’onda oceanica. A sbalzo sulle nostre teste c’era la morte, che per uno strano equilibrio di forze non ci era ancora piovuta addosso. Era impossibile vederla da sotto e fu per questo che mi sentii ancora più sbigottito e perso a un soffio da questa bomba ad orologeria”. Sì, Marco era riuscito a far accorgere Simone del pericolo che lo sovrastava, ma altro non poteva fare. Lo prese nuovamente quel senso di impotenza e di sgomento che lo assaliva quando si trovava nell’impossibilità di poter aiutare quelli che osservava. Cercò di trattenere le lacrime, ben presagendo quello che stava per accadere: allora urlò ancora “Simone, attento!!!”.
“…Guardai istintivamente sopra di me. Una frazione di secondo dopo, un boato sancì definitivamente il momento in cui quella gigantesca cornice e con essa le nostre vite avevano finito la loro esistenza. “Anatolij…” riuscii ad emettere solo quell’urlo prima che l’esplosione di ghiaccio e rocce cominciasse a precipitarmi addosso. Feci ancora in tempo a girarmi verso di lui e ancora oggi ricordo i suoi occhi. Non so come ma, nonostante le centinaia di metri che ci separavano, io ricordo il suo sguardo proprio come se l’avessi avuto di fronte”.

Simone fece in tempo a vedere questa immagine e poi vide scomparire i suoi amici: iniziò un’interminabile serie di salti, scivolate, rotazioni e voli e una serie di urti contro la parete. Marco lo accompagnò lungo tutto il suo volo di quasi 800 metri lungo la parete, sperando e pregando che riuscisse a fermarsi: e fu così…
“…Alla fine di quel viaggio mi ritrovai seduto e immerso in un silenzio tombale. Ero su un pianoro rivolto verso valle […] e le mie mani erano aperte fino all’osso e la carne bruciata orlava i profondi solchi provocati dalla corda. […] L’occhio sinistro era contornato da un ematoma delle dimensioni di un’arancia… Non avevo guanti, non avevo occhiali da sole, la temperatura era oltre i -30°, ero sospeso a 5500 metri di quota, vedevo da un occhio solo, ero gravemente ferito…”. Simone si sentii solo, mentre il tempo scivolava via e, inesorabile, sentiva avvicinarsi l’ora della sua morte. Ma Marco urlò più forte che poteva e, improvvisamente, sentì Simone che ripeteva le sue parole: “No! Non voglio morire! Brutta bastarda di una valanga, devi scendere ancora una volta se vuoi uccidermi! Non l’avrai vinta con me. Sì, hai capito bene. Io torno giù a costo di strisciare come un verme, ma qui non crepo!”.
Marco si accorse di essere riuscito a ridare un po’ di fiducia e di forza allo sventurato alpinista. Simone continuò la sua discesa con la forza della disperazione e percorse addirittura 1500 metri di parete, ma le sue forze erano ormai ridotte al lumicino. Si alzava e, fatti pochi passi, cadeva per terra. Marco cercò ancora di scuoterlo: “Alzati!!!! Alzati o crepi anche tu. Pensa ad Anatolij: adesso parti da dieci e allo zero ti alzi. Vedrai che funziona, dai!”
“Ricordo che già da tempo parlavo ad alta voce, mi incoraggiavo, come se quella voce fosse di un’altra identità che, vicino a me, mi accompagnava ed esortava. Non ero matto o fuori di me. Molte volte durante i miei allenamenti solitari utilizzavo ancora questa tecnica per darmi la carica e andare oltre. Per prepararmi a situazioni come quella che stavo vivendo, avevo sempre prediletto l’allenamento solitario piuttosto che quello in compagnia. […] Ma, in quel modo, in quell’angosciante sequenza di insulti e incoraggiamenti riuscii ad aprirmi un varco in tutta quella lingua di neve.
Non ricordo esattamente quando, ma arrivò il momento in cui vidi le tre baite dell’Annapurna Sanctuary, il Campo base! Non sapevo se chiamare o arrivare in silenzio fino al campo. Avevo probabilmente paura di appurare che il campo della salvezza fosse tragicamente vuoto o deserto”
Marco gli urlò ancora una volta “Simone, chiama, chiama!” e Simone chiamò con tutte le sue ultime forze. Gli rispose il cuoco che, anziché lasciare il Campo base come gli era stato ordinato, era rimasto ad attendere. Così Marco assistette con emozione al momento in cui Simone venne soccorso e portato dentro la baracca del campo, dove gli poterono praticare le prime cure, prima del suo trasporto in ospedale. Marco tentò di sfiorare la sua mano terribilmente ferita e sanguinante ma, come le altre volte, fu portato via dalla fortissima luce che sempre lo avvolgeva, viaggiando sino al … [continua].
Il racconto di Simone Moro contenuto nel libro (dal quale sono tratte queste parti della sua drammatica esperienza) ci fa quasi sentire la disperazione per la morte incombente e poi la gioia per l’insperata salvezza. Ma, soprattutto, il suo narrare ci fa vivere il suo dolore per non poter più sperare nella salvezza dei suoi compagni e il libro è un inno meraviglioso all’amicizia con Anatolij che, in più parti del testo, emerge con la forza e la vividezza di ricordi sempre chiaramente presenti nella memoria dell’alpinista italiano. E anche noi ci lasceremo trasportare dalle sue parole, sentendoci anche noi (come Marco) quasi accanto a lui…